Est, Ovest, Capitalismo, Comunismo: 28 anni di divisione ci hanno quasi fatto dimenticare che Berlino prima del 1961 era molto semplicemente una città. Oggi, 30 anni di libertà, rendono difficile immaginare che essa sia mai stata divisa, murata, impenetrabile a buona parte dei suoi stessi cittadini.
Il 13 agosto 1961 sorse dal nulla il simbolo più disumano della Guerra fredda, la “barriera di protezione antifascista”, come il regime dell’Est chiamò quel serpente di cemento che si era inventato per frenare l’esodo dei propri cittadini e che mantenne per istinto di sopravvivenza fino al 9 novembre 1989.
Fino al giorno prima, 60.000 Berlinesi dell’Est avevano pendolato quotidianamente di qua e di là del confine. Si poteva rinunciare da un giorno all’altro al reticolo di abitudini, affetti, interessi che fanno una città? No, non si poteva.
Di qui il brulicare di iniziative per superare e aggirare la divisione. I Fluchthelfe erano coloro che da Occidente organizzavano la fuga dei Tedeschi orientali: soprattutto giovani, audaci, incoscienti, disperati, disposti a tutto per difendere il loro bisogno di sicurezza e libertà.
Ma più passavano i mesi e più il confine andava compattandosi in blocchi di cemento, torrette, turni di guardia, presidi armati e militarizzati. Iniziò così una seconda eroica fase di lavoro per la libertà: in 28 anni furono realizzati almeno 75 tunnel tra Est e Ovest.
Quello che fece più scalpore forava l’argilla sotto Bernauer Strasse, nel nord della città. Lo scavò un manipolo di volontari guidati da due ragazzi italiani.
Mimmo Sesta e Luigi Spina, entrambi studenti in ingegneria, si conobbero a Gorizia e si ritrovarono alla Technische Universität di Berlino. Ora non ci sono più, ma nel 2000 fecero in tempo a ricevere dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la Medaglia d’oro al valor civile per la loro impresa all’ombra del Muro. Essi volevano far scappare Peter Schmidt, un compagno di studi che era rimasto intrappolato a Est con la famiglia, così finirono per scavare un tunnel di 120 metri che regalò la libertà a 29 persone. Durante gli scavi Domenico Sesta conobbe Ellen, una ragazza berlinese che svolse il ruolo di staffetta e che sarebbe poi divenuta sua moglie raccontando in un libro, Il tunnel della libertà, questa incredibile storia. Il “tunnel degli italiani” fu reso possibile da un copioso finanziamento del network statunitense NBC che ottenne in cambio l’esclusiva di poter filmare i durissimi lavori di scavo e l’entusiasmante momento in cui uomini, donne e bambini emersero dalla galleria, ritrovandosi nell’agognato Occidente. Fu una sorta di reality ante litteram girato sul fronte della Guerra fredda, un’impresa irripetibile, l’unico documentario della storia della tv americana girato a Berlino Est ad aggiudicarsi un Emmy Award come miglior programma dell’anno. Concluso il tunnel, i due italiani continueranno a far fuggire molti altri Tedeschi dall’Est verso l’Occidente attraverso una rete clandestina che produceva documenti falsi.
Il 13 agosto 1961 anche i fratelli Karl e Horst Muller, impiegati a Berlino Ovest, videro i legami con i loro colleghi e con il loro fratello Rudolf rescissi dal muro. Decisero di tentare la fuga tramite la metropolitana, sfruttando una linea di Berlino Ovest che ancora passava all’Est. Le due famiglie raggiunsero il binario tramite i condotti di areazione ai quali ebbero accesso mediante una chiave fatta in casa.
Il piano ebbe successo e gli 11 fuggitivi riuscirono a salire sul treno e a superare i controlli della polizia raggiungendo la libertà.
Tuttavia il dramma delle famiglie era appena iniziato: la famiglia di Rudolf era ancora a Berlino Est.
I tre fratelli iniziarono dunque lo scavo di un tunnel sotto il muro.
Giunto a Berlino Est, Rudolf venne individuato da una giovane guardia di confine cui si vide costretto a sparare per proteggere la sua famiglia. Fu un momento terribile, uno di quelli che ti cambiano per sempre la vita. La fuga venne portata a termine con successo ma ancora oggi, a distanza di anni, Rudolf avverte sulla propria coscienza il peso dell’omicidio della guardia.
La libertà alle volte necessita di un prezzo pesantissimo.
Negli anni ’70 la DDR aveva completato la terza fase della costruzione del muro rendendolo di fatto invalicabile via terra.
Il rafforzamento della frontiera però non scoraggiò tutti coloro che non sopportavano i soprusi e la mancanza di libertà imposte dal regime socialista.
Tra questi vi era la famiglia Strelzyk, il cui capostipite Peter ideò un piano ingegnoso per la fuga: costruire una mongolfiera per sorvolare il muro.
La famiglia effettuò un primo tentativo che si concluse senza successo a poca distanza dall’Ovest a causa di un guasto.
La Stasi scoprì i resti della mongolfiera e si mise alla ricerca dei fuggitivi.
La paura della polizia tuttavia non fermò gli Strelyz cui nel frattempo si era aggiunta anche la famiglia dei Wetzel.
Le due famiglie lavorarono alacremente per realizzare una nuova mongolfiera che consentì loro, il 16 settembre 1976, di sorvolare il muro e atterrare ad Ovest.
Pochi sanno che una delle vittime del Muro di Berlino fu un bambino italiano di soli 6 anni d’età che morì affogato nel fiume Sprea. Giuseppe viveva con i genitori e le sorelle nel quartiere occidentale di Kreuzberg. Cadde in acqua il 15 Giugno del 1974 mentre giocava con un amico sulle sponde del fiume; in quel punto esso era completamente di proprietà di Berlino Est e Giuseppe fu portato via dalla forte corrente. Quando i primi adulti avvertiti dai compagni di giochi arrivarono, Giuseppe non era già più in vista. Le guardie dell’Est pensarono che fosse un falso allarme o una provocazione e non fecero intervenire i poliziotti dell’Ovest, mentre discutevano sulla competenza dell’intervento di soccorso. Giuseppe Savoca è oggi ricordato al Memoriale della Bernauerstrasse nella cosiddetta Finestra della Memoria.
Con il passare degli anni, la frontiera fu chiusa irrevocabilmente.
La vita quotidiana di chi si amava da una parte e dall’altra del Muro divenne allora questa: lettere struggenti piene di malinconia. Almeno quelle erano infatti consentite.
Come quella di Elke e Dieter, ritrovata solo nel 2013 presso un‘abitazione berlinese.
Uno dei grande amori spezzati dal Muro!
Il 18 febbraio 1968, Elke Weckeiser tentò con suo marito di attraversare il confine con Berlino Ovest.
Il luogo selezionato a Berlino-Mitte, sulla Sprea, di fronte all'edificio del Reichstag, era particolarmente monitorato e dotato di sistemi completi di sicurezza.
La coppia avrebbe dovuto nuotare attraverso il fiume che aveva a febbraio temperature intorno allo zero. Verso le 23:00 i due giovani schiacciarono inavvertitamente una recinzione di filo spinato e furono notati delle guardie di frontiera su una vicina torre di guardia.
I soldati aprirono immediatamente il fuoco sui fuggitivi. Dei 17 colpi sparati, due colpirono Elke Weckeiser al petto e alle cosce, mentre suo marito Dieter subì la frattura del cranio.
Morirono entrambi.
a Elke Weckeiser
Berlino, 19 Febbraio 1968
Il famoso cantautore italiano scrisse le parole dell’emozionante canzone Futura proprio a Berlino, seduto su una panchina davanti al Checkpoint Charlie:
«… I russi, i russi, gli americani
No lacrime non fermarti fino a domani
Sarà stato forse un tuono
Non mi meraviglio
È una notte di fuoco
Dove sono le tue mani
Nascerà e non avrà paura nostro figlio
E chissà come sarà lui domani
Su quali strade camminerà
Cosa avrà nelle sue mani, le sue mani
Si muoverà e potrà volare
Nuoterà su una stella
Come sei bella
E se è una femmina si chiamerà Futura … Chissà, chissà, domani…»
Cos’altro sa domandarsi un uomo che affida il suo futuro a una speranza? Domani è un bel sogno a occhi aperti, perché anche chiuderli non cambierebbe nulla: di fronte allo sguardo che cerca nell’orizzonte c’è il Muro a tagliare via la luce, la vita al di là è concesso soltanto immaginarla e in caso di colori migliori è consigliabile tenerseli dentro.
È nel grigio che si fa la guerra, e i colori sono contagiosi.Berlino è aperta in due metà da un’arteria di cemento e paura, i due ventricoli battono a ritmi diversi, indipendenti, eppure in qualche modo legati. In fondo, è allo stesso cuore che appartengono.
Stanotte finalmente si fa l’amore, le mani, le sue dell’Est e le tue dell’Ovest, si cercano, si trovano, si incastrano. È una notte di fuoco, dove sono le tue mani..
All’artista basta un suono, una fotografia, una suggestione a mettere in scena la storia, a disegnarne i due amanti, a regalare loro, avvolto nel fumo della sua sigaretta, Futura, quella figlia che non avrà paura, nonostante la guerra ancora in pieno svolgimento, forse al proprio apice.
Nel blocco orientale, la DDR nel suo periodo di massimo splendore era uno dei membri economicamente più prosperi. Il tenore di vita superava quello dei vicini, ma era ben al di sotto dei Tedeschi occidentali.
La varietà dei prodotti di consumo era limitata pertanto alcuni assunsero una statura quasi mitica per i tedeschi orientali, diventando segni di status sociale. Ne è un esempio il famigerato Trabant, un'auto prodotta dalla Germania dell'Est, che la gente era disposta ad aspettare anni in lista d’attesa.
Gli affitti erano molto economici come anche i generi alimentari di base quali pane e latte. Esisteva un sistema educativo di alta qualità che non si rivolgeva solo agli accademici ma anche al conseguimento di qualifiche professionali.
Lo Stato aveva il dovere di aiutare a trovare un lavoro (allo stesso modo, ogni cittadino della RDT aveva il dovere legale di avere un lavoro). I libri erano molto convenienti e le biblioteche erano ovunque. Anche il trasporto pubblico, congelato ai prezzi del 1937, era molto economico e conveniente.
Alle persone era permesso di portare piccole quantità di alcuni prodotti occidentali - caffè, per esempio - e spesso contrabbandavano cose che non potevano portare. Ciò ha comportato un mercato nero di merci occidentali proibite, tra cui musica, letteratura e arte occidentale.
Il sistema economico, che nell’immediato produsse i successi che favorirono la stabilità del regime, in realtà nascondeva problemi di fondo che a lungo termine si sarebbero rivelati fatali per il regime.
Dalla fine degli anni ‘60, l’economia diventò per la DDR un problema serio: fu proprio il disastroso bilancio economico della fine del 1969 a costare a Ulbricht la perdita del potere.
Il deficit economico non fu sanato nei decenni successivi: i cittadini erano costretti a lunghe code ai mercati e dovevano iscriversi a interminabili liste d’attesa per l’acquisto delle lavatrici e delle “trabi”. Alla fine del 1989, dopo l’apertura del muro, furono soprattutto le esigenze materiali a spingere i cittadini Tedesco-orientali nelle braccia del sistema capitalistico della Germania occidentale.
Un composito e onnipresente apparato propagandistico somministrava ai cittadini della DDR regole sociali e morali, basate su una versione del marxismo-leninismo semplificata e continuamente adattata alle esigenze della politica.
Tutte le fasi della vita dei cittadini, tutte le categorie sociali e lavorative erano incasellate in associazioni e sindacati strettamente legati al partito e ad esso vincolati nell’impostazione ideologica.
Il partito non si accontentava di indottrinare i giovani durante le ore di educazione civica a scuola e nelle associazioni giovanili dei pionieri e della FDJ, ma tentava di mantenere il controllo anche sugli operai, i contadini, i reduci antifascisti, la Chiesa, le donne, gli artisti, gli scrittori, gli scienziati e numerose altre categorie.
La stampa, la radio e la TV, monopolizzate dal partito, diffondevano notizie parziali e distorte e facevano uso di una retorica, resa insensata dalla ripetitività e dall’usura. I manifesti di propaganda glorificavano le meraviglie del socialismo, contrapponevano alla sanguinaria politica dei missili degli Stati Uniti una fraterna alleanza con l’Unione Sovietica, un’improbabile generosa solidarietà con i paesi del terzo mondo o l’idilliaca immagine dell’esercito tedesco-orientale, pronto a difendere il proprio paese.
Il sistema della propaganda e della sorveglianza, affidato alla Stasi, avevano reso molto labili i confini della vita privata. I singoli cittadini erano costretti a porre rimedio all’invadenza del potere politico cercandosi spazi dove fosse possibile esprimere la propria individualità. La letteratura fu così una di quelle preziose “nicchie” che resero meno disumana la vita nella società tedesco-orientale.
Dopo la caduta del Comunismo, i fascicoli che la Stasi teneva sulle persone, inclusa l'identità degli informatori, furono aperti al pubblico, dopo di che le persone scoprirono di essere state informate da amici, familiari e persino coniugi in alcuni casi, distruggendo molte relazioni.
In molti casi, le persone si rifiutano di cercare i loro file per evitare di farlo.
Di seguito possiamo leggere diverse testimonianze sconcertanti riguardante l’operato della Stasi:
I “wessi”, come venivano chiamati i cittadini della Germania occidentale, avevano paura di cosa avrebbe significato aprire le frontiere a milioni di “ossi”, più poveri e meno educati. Non solo: portare la Germania orientale al livello di una democrazia occidentale sarebbe costato molto e questo avrebbe significato meno denaro per tutti. Anche ad Est l’unificazione non fu indolore. Lothar de Maizière, primo ed ultimo primo ministro della Germania orientale liberamente eletto, ha raccontato al New York Times quale fu l’esperienza dell’Est dal suo punto di vista:
“Nel giro di una notte fummo catapultati dentro una delle economie più forti del mondo. Ci fu risparmiata la lunga attesa che toccò a polacchi e cechi, ma fu un incredibile shock per l’economia della Germania orientale. La disoccupazione era quattro volte quella dell’ovest. I tedeschi orientali furono costretti a emigrare dal loro paese senza averlo mai lasciato.”
La rapidità dell’unificazione fu un trauma per l’economia della Germania Est che era basata su un sistema socialista. In poco tempo tutte le aziende di proprietà dello stato furono privatizzate, spesso senza badare molto a come quella privatizzazione avveniva.
Come conseguenza della riunificazione, la maggior parte della ex-RDT ha subito una de-industrializzazione, che ha causato un tasso di disoccupazione di circa il 20%. Da allora centinaia di migliaia di Tedeschi orientali hanno continuato a migrare verso l'Ovest per trovare lavoro. Ciò determinò una significativa riduzione della popolazione nei Länder orientali, specialmente per quanto riguarda i professionisti altamente qualificati.
Troviamo qui uno squarcio che descrive in modo molto efficace le ripercussioni che ci furono dopo lo scioglimento della DDR:
Il cinema è l’arma di propaganda fondamentale del Novecento. Evolutosi fino a superare le potenzialità della radio e decisamente più sottile nel riuscire a nascondere le proprie idee dietro una patina di fascino narrativo, esso è stato in moltissimi casi il veicolo per la propagazione di idee politiche.
Nell’intento degli Americani esso avrebbe dovuto aiutare a colmare la superiorità sovietica nel campo delle armi nucleari e dei progressi nella tecnologia spaziale.
Nei primi anni della guerra fredda (1948-1953) furono pubblicati settanta film esplicitamente anticomunisti. Nonostante la mancanza di passione del pubblico per questo genere, essi servirono evidentemente da propaganda di successo sia in America che nell’URSS.
Negli anni '60 Hollywood iniziò a produrre film di spionaggio per creare il nemico attraverso il cinema.
Essi divennero effettivamente "un'arma di confronto tra i due sistemi del mondo". Entrambe le parti accentuarono la paranoia e crearono un senso di costante disagio nei telespettatori. Il film raffigurava il nemico in un modo che fece sì che entrambe le parti aumentassero il sospetto generale di minaccia interna e straniera.
Pro o contro le guerre sostenute dal loro paese, pro o contro il sistema governativo, la propaganda di Hollywood è sempre esemplare anche negli anni della distensione, contribuendo a costruire un’immagine stereotipata dell’avversario russo, tratteggiandolo come il grande mostro che minacciava la pace mondiale con nuove potentissime armi e intenti bellicosi.
Molti esempi del “nemico di celluloide” posso essere rintracciati nei film degli anni ’80, in particolare quelli girati durante la presidenza di Ronald Reagan il quale, visti i suoi trascorsi di attore hollywoodiano, investì molto sul cinema come strumento di propaganda anti-sovietica per esaltare la superiorità economica, la potenza americana, il suo capitalismo liberista, il patriottismo liberale. Alcuni film del filone popolare, molto commerciale, che ebbero largo sèguito anche in Italia, recavano messaggi spudoratamente anti-russi oggi risibili sotto molti aspetti!
Il quarto capitolo della saga incentrata sul mitico pugile italo-americano rappresenta il migliore esempio di propaganda cinematografica anti-sovietica. L’antagonista Ivan Drago è la personificazione della visione americana dell’Unione Sovietica: potentissimo, robotico, spietato e quasi senza personalità, capace di uccidere un uomo senza battere ciglio, insomma una caricatura fin troppo esplicita del titanismo illiberale sovietico. Tra le scene che meglio mostrano il contrasto tra sovietici e americani vi sono il combattimento tra Apollo Creed e Drago, in cui il freddo russo massacra senza pietà Creed, e le sessioni di allenamento di Rocky e Drago. In quest’ultima scena il regista, Silvester Stallone, contrappone ai tecnologici e sofisticati allenamenti del russo, che fa anche largo uso di steroidi, la preparazione americana sana e virtuosa tutta “sudore e sangue” che ovviamente si rivelerà vincente Sul ring si assiste ad un confronto vero e simbolico tra USA e URSS: la libertà, il patriottismo, il sogno americano, in contrasto con l'oppressione, l’austerity, la dittatura sovietica. Rocky IV rappresenta insomma il trionfo dell’ edonismo reaganiano !
Uscito nel 1986, questo grande classico commerciale degli anni ’80, costituisce uno dei film di propaganda più noti e meglio modellati. Incrocia la propaganda esplicita (i russi effettivamente sono il nemico) con quella implicita (l’esaltazione delle virtù e dello stile di vita americano), mette l’edonismo reaganiano a frutto e lo direziona verso un bersaglio. I russi hanno caschi neri che ne nascondono il volto, sono spersonalizzati, non parlano, non hanno volontà; gli americani invece, belli ed atletici, giocano a beach volley in spiaggia, si preoccupano per le loro famiglie, soffrono per la perdita dei loro commilitoni e, cosa incredibile, si innamorano ! Top Gun fu l'apoteosi dell'America “a stelle e strisce” sotto la presidenza di Ronald Reagan. Il nemico era ancora unico, anche se cominciava a traballare: l'Unione Sovietica. Gli Usa si erano imbarcati nel progetto dello scudo stellare Star Wars e si rifacevano il look di Paese tozzo, vincente e arrogante, a suon di spot patinati e plastificati.
Anche il terzo capitolo della serie Rambo, giunto nelle sale nel 1988, va annoverato tra i migliori esempi pop di propaganda cinematografica.
Rambo si trasferisce in Afghanistan, allora occupato dai Sovietici, per combattere a fianco dei talebani. Sono loro il bene, la parte affettiva del film, le persone da salvare con cui l’America militare si allea e che promuove come i buoni.
I mujaheddin e la guerra santa sono la parte morale del conflitto, quella che conquista il cuore dei Rambo, colpito dal loro coraggio e determinato a porre fine alle terribili sofferenze causate loro dai Russi, ben riassunte nel discorso del comandante Masoud.
Tutto il film è dominato dagli scontri tra il muscoloso eroe americano ed i barbari sovietici, disposti anche all’utilizzo della tortura e al massacro dei civili pur di giungere ai loro scopi.
Molto significativo è il comandante Kourov: insensibile, violento e dedito solo al combattimento.
Solo poco più di un decennio dopo scoprimmo che proprio in quel conflitto erano stati piantati i germi che poi diedero vita da Al Qaeda.
Le nazioni del blocco orientale furono tenute nella sfera di influenza sovietica con l'uso della forza militare: l'Ungheria fu invasa dall'Armata Rossa nel 1956 dopo che aveva ribaltato il governo filo-sovietico in favore di una democrazia indipendente da Mosca; la Cecoslovacchia nel 1968, dopo un periodo di liberalizzazione noto come Primavera di Praga.
Ciò nonostante i paesi del Patto di Varsavia non agirono sempre tutti insieme. Per esempio, l'invasione del 1968 della Cecoslovacchia, fu condannata dalla Romania, che si rifiutò di prendervi parte.
La Romania è anche stato l'unico paese del Blocco orientale ad aver rovesciato violentemente il suo regime comunista.
Il suo leader massimo, Nicolae Ceauşescu, fu infatti giustiziato il 25 dicembre 1989, assieme alla moglie Elena, dopo un arresto e un processo sommario seguiti ad una rivoluzione di popolo esplosa a causa di un profondo malcontento sociale.
Dapprima segretario del Partito Comunista Rumeno, Nicolae Ceauşescu divenne nel 1967 Presidente del Consiglio di Stato governando con il pugno di ferro un Paese che guardava più al modello comunista cinese che russo. Grazie alla sua politica di rifiuto della sovranità limitata, che sfidava la supremazia dell'Unione Sovietica e condannava lo sfruttamento di tipo neo-coloniale subìto dalla Romania, egli acquistò progressivamente popolarità.
Dal 1966 non partecipò più attivamente al Patto di Varsavia sebbene formalmente la Romania ne rimanesse membro.
Nel 1974 Ceauşescu si insignì del titolo di Presidente della Romania. Egli seguì una politica indipendente nelle relazioni estere; per esempio, la Romania fu uno dei soli tre paesi comunisti (assieme a Repubblica popolare cinese e Jugoslavia) a prendere parte ai Giochi della XXIII Olimpiade di Los Angeles nel 1984. Ciò nonostante Ceauşescu rifiutò qualsiasi ipotesi di riforma liberale e l'evoluzione del regime seguì il tracciato totalitario basato su repressione, sviluppo forzato, culto della persona.
Anche in Romania la polizia segreta (Securitate) mantenne un assoluto controllo sui media e non tollerò nessun tipo di opposizione interna. A partire dal 1972, Ceauşescu istituì un programma di sistematizzazione della Romania: il programma di demolizione, ristrutturazione e costruzione, cominciò nelle campagne e culminò con un tentativo di completo rimodellamento della capitale del paese. Oltre un quinto di Bucarest, incluse chiese e palazzi storici, venne demolito negli anni ’80 con l'intenzione di ricostruire la città nello stile voluto da Ceauşescu.
Egli pianificò di distruggere molti villaggi con i bulldozer e di trasferirne gli abitanti in condomini cittadini, come parte del suo programma di "urbanizzazione" e "industrializzazione".
Nel 1966 il regime intraprese una politica demografica incentrata sulla messa al bando di qualsiasi forma di contraccezione o aborto e introdusse norme a sostegno dell'incremento del tasso di natalità, inclusa una tassa tra il dieci e il venti per cento del reddito sia per gli uomini sia per le donne (sposati o celibi/nubili) che dopo i 25 anni fossero rimasti senza prole.
L'aborto era ammesso solo per le donne sopra i quarantadue anni o già madri di quattro (successivamente cinque) bambini.
Madri che avessero più di cinque bambini ricevevano vari benefici, mentre le madri di più di dieci bambini erano dichiarate madri-eroine, ricevevano una medaglia d'oro, un'automobile gratuitamente, trasporto gratuito sui treni e altri bonus. Poche donne in ogni caso raggiunsero questi obiettivi, una famiglia romena aveva mediamente tra i due e i tre bambini. Inoltre, un numero considerevole di donne morì o subì mutilazioni durante l'esecuzione di aborti clandestini.
Il governo si diede anche l'obiettivo di diminuire la percentuale dei divorzi rendendolo difficile da ottenere; fu infatti decretato che il matrimonio poteva essere annullato solo in casi eccezionali. Negli anni ‘60 la popolazione iniziò a crescere accompagnata da un incremento della povertà e del numero di persone senza fissa dimora (bambini di strada) nelle aree urbane. Dall'altro lato un nuovo problema fu creato dalla crescita incontrollata del fenomeno dell'abbandono dei bambini, che portò alla conseguente crescita della popolazione degli orfanotrofi. Questo facilitò la diffusione dell'AIDS, favorita anche dalla decisione del governo di non riconoscere l'esistenza di questa malattia e di non consentire l'esecuzione del test HIV.
Durante il 1989, Ceauşescu si trovò sempre più isolato, anche nel mondo comunista. Il 9 novembre cadde il Muro, il 25 dicembre egli fu giustiziato, il 28 giugno 1991 fu dichiarato sciolto il Comecon ed il 1º luglio il Patto di Varsavia; questi due eventi sanciscono quantomeno simbolicamente la fine dell'influenza della Russia sovietica nell'Europa orientale e quindi la scomparsa del blocco orientale stesso.
Trent'anni fa finiva nel sangue anche la dittatura di Ceauşescu.
All’interno della nostra classe è inserito un compagno di nome Filip Denis Fabian. Nato in Romania da genitori rumeni e giunto in Italia, dove attualmente vive, dall’età di 2 anni, egli ha deciso di intervistare suo nonno materno emigrato verso l’ Italia nel 2007 per raccogliere una testimonianza di come si viveva ad Est durante la Guerra fredda e sotto la dittatura di Ceauşescu.
Prima e dopo la caduta del Muro, vista da Est, l’Europa rappresentava un sogno di libertà e prosperità economica.
Ecco qui di seguito l’intervista al Sig. Viorel Spataru, nonno di Fabian, oggi settantenne.
Nel 1989 i muri di confine erano 15, oggi sono almeno 70.
Dividono la superficie terrestre per circa ventimila chilometri.
È in Europa dell’Est dove sono stati maggiormente costruiti negli ultimi anni.
Dall’Ungheria lungo in confine con la Serbia ma anche da Bulgheria e Grecia lungo i rispettivi confini con la Turchia.
I muri corrono poi dalle due Corree alla Cisgiordania, tra India e Pakistan, India e Bangladesh, Arabia-Saudita e Yemen, Israele ed Egitto, Ceuta e Melilla, le due enclavi spagnole situate in Marocco, Kuwait e Iraq.
Tra Stati Uniti e Messico, dove il governo americano ha costruito una barriera lungo un terzo del percorso per bloccare l’immigrazione dal Messico e altri Paesi dell’America centrale.
Confini blindati per impedire un movimento naturale, quello degli esseri umani e dei popoli.
Trent’anni dopo la caduta del Muro, l’Europa torna ad innalzare anche frontiere, muri invisibili che salvano o condannano coloro che li attraversano attraendo con le luci al di là e poi tradendo con rovinosi dirupi che ingoiano corpi e speranze.
Dopo Shenghen le frontiere le avevamo dimenticate, rafforzando con l’adozione della moneta unica un senso di unità e cosmopolitismo.
Sul confine italo-francese la libera circolazione di merci, uomini, capitali è divenuta realtà con lo smantellamento della dogana italiana di Ponte San Ludovico.
Ma a partire dal 2011, a seguito delle primavere arabe, centinaia di tunisini arrivano a Ventimiglia per cercare di recarsi in Francia. Ecco che allora, dopo vent’anni, rispuntano i gendarmi con l’ordine a respingerli, pena la minaccia del presidente Sarkozy di sospendere l’accordo di Shenghen.
Per passare i nuovi profughi riprendono a percorrere i vecchi sentieri in disuso del Passo della Morte, un sentiero impervio e scosceso che collega Grimaldi, paesino vicino a Ventimiglia, con la Francia. Questo temibile percorso è stato scenario, nella storia, di migrazioni diverse: dai clandestini anti-fascisti, agli ebrei in fuga, dalle leggi razziali ai migranti dei giorni nostri.
Quest’ultimi talvolta attraversano il passo da soli, più spesso avvalendosi di “guide”, i passeur, uomini esperti del territorio, non sempre brava gente, i quali, speculando sulla speranza e la disperazione dei migranti, si fanno pagare profumatamente un passaggio in auto oltre al confine. Ma ci sono anche molti volontari che esprimono la loro solidarietà riaprendo e segnando i vecchi sentieri cancellati dalla vegetazione e dai cinghiali.
Dopo i tunisini è stata la volta di siriani, sudanesi, eritrei, in numero via via crescente.
Nel 2015, respinti dalla Gendarmerie, essi occuparono la stazione ferroviaria di Ventimiglia trasformandola in un caotico e malsano dormitorio. Da quel momento, tra accoglienza e intolleranza, la vita di questo angolo di Liguria è cambiata radicalmente; la miseria e la disperazione sono divenute “cose di tutti i giorni”, una realtà sbattuta in faccia impossibile da ignorare.
Nel 2018, sul finire di giugno, quel sentiero di montagna restituisce una storia incredibile occorsa ad un ragazzo di colore, ciadiano. Era scivolato dal “beà de Bedin”, una delle parti più pericolose in assoluto del passo. Si tratta di un minuscolo canale di appena 40 centimetri a strapiombo sulla strada. Mentre il ragazzo precipita giù per lo sperone, una rete ne frena miracolosamente la caduta.
Egli rimane bloccato in questa gabbia incapace di risalirla o di muoversi verso il basso. Resta fermo accanto ad un cespuglio, senza dare segni di vita finché un pompiere italiano ed un elicottero francese lo raggiungono salvandolo rocambolescamente.
Dirigendosi verso gli uffici della polizia francese, “egli camminava zoppicando ma sprizzando gioia da tutti i pori”. Queste le parole di Enzo Barnabà, scrittore e saggista originario di Grimaldi, nel suo libro-testimonianza Il passo della morte, una preziosa galleria di immagini e storie della frontiera italo-francese che rilancia la sfida sempre attuale dell’abbattimento delle frontiere mentali, quelle sempre ricorrenti, perché alimentate da pericolosi nazionalismi.
Ho deciso di partecipare a questo progetto per approfondire un'importantissima pagina di storia recente e per osservare l'influenza di tali eventi sul mondo attuale.
Affrontando questo progetto ho avuto modo di mettermi alla prova, ampliando le mie conoscenze tecniche e approfondendo un argomento, quello dei muri, attuale e significativo.
La realizzazione di questo progetto mi ha aperto gli occhi su quanto dobbiamo lottare per abbattere i muri fisici e non che tristemente ancora dividono il nostro mondo.
Sono affascinato da come la gente viveva sotto le dittature. Partecipando a questo progetto ho avuto modo di approfondire questo aspetto poco trattato nei libri di storia.
I muri che ancora ci dividono sono tanti e grazie a questo progetto sono pronto a dare il mio contributo per abbatterli tutti.
Anche noi uomini possiamo essere "ponti" o "muri", unire o dividere.